Arte

FILM


LA LA LAND

Damien Chazelle

Giallo, verde, rosso, viola, arancione, blu, lilla, rosa, bianco, azzurro... e tutti gli altri colori sono presenti e protagonisti del film. Il colore trionfa e allontana qualsiasi retaggio di cinema in bianco e nero, anche se alle pellicole del passato guarda talvolta con amore. Le citazioni consapevoli sono, infatti, molte e notevoli e sono perfettamente cucite sul tessuto della trama, tanto da riconsegnarci un'originalità che piace per eleganza e brio. I colori sono vestiti (letteralmente) e arricchiti sobriamente dalla protagonista, interpretata dall'attrice da doti indiscusse, Emma Stone. La sua figura dialoga perfettamente con il contesto, i suoi movimenti leggiadri ed espressivi vestono in ogni situazione il giusto colore/calore...
Ma la visione cromatica non è la sola che colpisce! Sicuramente è il sonoro che imbriglia lo spettatore; più precisamente la musica, note al pianoforte e parole di testi (che scorrono in traduzione italiana nei sottotitoli), brani jazz, musica dal vivo, improvvisazioni, musicisti (reali come John Legend) e anche concerti rock... tanta musica, è un musical! E si balla in coreografie ben studiate.
La storia offre un tributo al jazz, al cinema, all'amore. 

I protagonisti sono un uomo (Ryan Gosling) e una donna (Emma Stone), due sognatori, in quanto hanno entrambi una passione che deve trovare spazio, vita: si tratta del jazz per lui, della recitazione per lei. Il racconto utilizza i due punti di vista, ma anche la linea del tempo che può ri-arrotolarsi per offrire nuovi esiti alle stesse vite... diverse sono le possibilità, così come nella vita, o no? Un pizzico d'amaro c'è sul finale (ma non siamo certo qui per anticipare nulla).

Quel che colpisce è in particolare una canzone, composta da Justin Hurwitz (che cura tutta la musica del film), City of stars (candidata all'Oscar) che è interpretata nel film in più occasioni, segnando un leitmotiv dolcissimo, di forte impatto, costellata di stelle e di stupore. Che difficile dirlo a parole! "A rat-tat-tat on my heart": se esiste la città delle stelle, tutte quelle stelle brillano per me? E allora come non ci si può commuovere davanti a un simile firmamento... la-la-land è un suono, un'onomatopea, un titolo, un sogno?
Non vi dico altro, se non che, a mio modesto parere, c'è un tributo a Edward Hopper (pittore statunitense) nella scelta soprattutto di alcune inquadrature che sembrano suoi quadri; e poi si vede qua e là spuntare qualcosa di Woody Allen (anche se nessuno lo ha detto).
Il giovane Damien Chazelle [autore e regista del già notato Whiplash], che lo ha scritto e diretto, ha infine composto un grande tributo all'America: un'America colorata, cinematografica, musicale, di locali jazz, di studios, di neri e bianchi, ospitale (si vede Ingrid Bergman e Charlie Chaplin), del sogno che "Another day of sun" [altra bella canzone del film] comunque ci sarà (che sembra echeggiare una delle ultime frasi pronunciate da Obama ed il film è a lui sicuramente più affine, quanto distante mille miglia dalla stretta tracotanza di Trump).
L'America anche per questo lo premierà! 

Candidato a quattordici Premi Oscar 2017 - Commedia con Ryan Gosling, Emma Stone, J.K. Simmons, Finn Wittrock, Sonoya Mizuno, Rosemarie DeWitt, Josh Pence, Jason Fuchs 

recensione di Silvia Morganti per Mescalina.it


Artisti cattolici: abbiamo un problema


Scorsese, Sorrentino, Carrère, De Luca: se i laici inquietano di più la fede rispetto ai cattolici

Sono stato al cinema a vedere Silence, l'ultimo film di Martin Scorsese. Un'opera che non lascia uscire dalla sala tranquilli, che pone il tema della fede in modo evidente, concreto e moderno: il Giappone del XVII secolo ha tanti tratti in comune con il mondo di oggi, soprattutto nel tormento che assale la figura di padre Rodriguez.

Un film su cui ho continuato a riflettere nei giorni successivi, parlandone anche con alcuni amici, segno che l'obiettivo del regista, per quanto mi riguarda, è raggiunto.

Ma un'altra riflessione mi è nata, e tocca il contesto creativo di questa alba del XXI secolo: c'è un problema nell'universo artistico di ispirazione cattolica. Negli ultimi anni libri, film, fiction che riescono a porre il tema della fede in modo nuovo, originale, e che riescono anche a inquietare (in modo salutare) provengono dal mondo laico, o distante dalla fede, o "diversamente credente"(così anche Scorsese, secondo a quanto dichiarato nell'intervista a Civiltà Cattolica).

Penso a Emmanuel Carrère e al suo Il Regno, edito nel 2015, che affronta l'argomento delle origini del cristianesimo in un continuo passaggio tra I secolo e presente; penso a The Young Pope di Sorrentino; penso ai romanzi, racconti e traduzioni di Erri De Luca, che da diversi anni, da non credente, non cessa di toccare la figura di Cristo, o comunque la Scrittura. Altri artisti potrebbero essere nominati in questo elenco.

Dove sono i cattolici che si sentono parte della Chiesa, che ad essa si riferiscono, che di fatto la frequentano? Quelli che hanno il coraggio di prendere di petto il tema del credere, della sua bellezza, fascino, difficoltà? Quando questo accade, spesso si oscilla dall'apologetica alla superficialità, quasi si avesse paura di affondare la penna, il pennello, la macchina da presa nella carne viva della fede, magari perdendosi in ossequiosi omaggi alla gerarchia. Insomma, l'arte può ancora oggi essere uno strumento per il Vangelo, come è stato per secoli e come Paolo VI, nel 1964, in una memorabile omelia agli artisti, invitava a riscoprire, in una nuova pace tra arte e Chiesa? Forse ancora oggi è attuale quella ammissione di colpa che Montini faceva: «Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi».

Se fosse qui la ragione di questa latitanza dei cattolici nei territori della creatività? Una cappa di piombo che poi è diventata abitudine, o servilismo, o comunque negazione di una vera libertà... Perché l'arte necessità della libertà e deve avere la forza di inquietare. Oggi sembra che questo carisma non sia più appannaggio dell'artista cattolico, salvo rarissime e spesso poco note eccezioni.

Abbiamo un problema serio se il Vangelo non riesce più a suscitare arte degna di questo nome, che si possa porre al centro del dibattito. Certamente la secolarizzazione ha giocato un ruolo in questo, è innegabile. Eppure in epoca di secolarizzazione ci sono stati Mario Luzi, Giacomo Manzù, Floriano Bodini, Mario Pomilio, Giovanni Testori, Ermanno Olmi (per fortuna ancora vivente) e David Maria Turoldo, giusto per fare dei nomi.

E se la crisi degli artisti cattolici fosse anche una crisi di profezia, non essendoci più oggi (anche qui con poche eccezioni, e penso soprattutto al Papa) profeti che denuncino e indichino la via nel nome di Dio?

C'è un altro segnale che mi conferma in queste osservazioni: se sfogliamo le pagine culturali di giornali e riviste di ispirazione cattolica troveremo che spesso si va a cercare il lato cristiano di questo o quel regista, attore, scrittore laico, quasi vi sia il desiderio inconscio di scoprire che anche lui o lei in qualche modo rientrano della "parrocchia". E se questo fosse dovuto al fatto che in "squadra" non abbiamo artisti di pari qualità?

Forse, come su altre cose, bisognerebbe partire anche qui da un bell'esame di coscienza: in cosa abbiamo sbagliato per essere arrivati a questo punto?

Per poi dire: e adesso cosa facciamo?

Commento di Sergio Di Benedetto classe 1983, insegnante di Lettere, è ora assistente di Letteratura Italiana all'Università della Svizzera Italiana di Lugano. Da anni collaboratore in realtà ecclesiali e scolastiche locali, scrive drammaturgie di carattere sacro e civile per una compagnia milanese di attori professionisti, la Compagnia dell'Eremo. Ha coordinato diversi laboratori teatrali nella scuole, per aiutare i ragazzi a crescere attraverso il teatro.


Water

India 1938. Chuya, una ragazzina di appena otto anni, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù, per espiare la colpa d'un marito perso e mai conosciuto, attraverso l'eterna penitenza imposta dai testi sacri. Tra veglie e preghiere, la ragazzina porterà una ventata di freschezza - e di scompiglio - che contagerà l'affascinante Kalyani, giovane vedova innamorata di Narayan, un fervente idealista sostenitore di Gandhi. Il film di Deepa Mehta va a concludere una personale trilogia sugli elementi acqua, fuoco e terra. Il tema trattato - la condizione della donna e in particolare delle vedove - apre nuovi spiragli su una condizione di disagio che ancora oggi, a distanza di cinquant'anni dalle conquiste del "profeta" Gandhi, contagia centinaia di migliaia di donne costrette alla ferrea osservanza delle pratiche religiose.


The Ornithologist 

Fernando decide di affrontare la natura incontaminata di Tras-os-Montes alla ricerca di cicogne nere, una specie in via di estinzione. Mentre osserva questi animali selvaggi a bordo della sua canoa viene travolto dalle rapide. Salvato miracolosamente da due turiste cinesi in cammino verso Santiago di Compostela, scappa nella foresta sperando di ritrovare la via del ritorno. La foresta, selvaggia e misteriosa non tarda a mostrare il suo lato oscuro seminando sul suo cammino ostacoli e incontri per lo meno destabilizzanti. Il suo sarà un viaggio iniziatico alla ricerca di se stesso, di un'illuminazione mistica pasoliniana che da pagana diventa divina.

João Pedro Rodrigues è un maestro incontrastato nell'arte della metamorfosi, della confusione e del surrealismo. Uomini e animali, passato e presente, vita e morte, dolore e erotismo, realtà e immaginazione ecco cosa motiva The Ornithologist, un film onirico che miscela sapientemente apocalisse e misticismo. Il regista esplora i punti di contatto tra differenti realtà esistenziali, si addentra nel subconscio del protagonista (memorabile Paul Hamy) come se volesse estrarne chirurgicamente l'essenza. La foresta, pericolosa ma affascinante o ancora la bellezza maestosa degli animali che la popolano, diventano l'incarnazione stessa del mondo interiore di Fernando: ambiguo, lacerato, sensuale. Come detto dal regista stesso, il punto di partenza del suo ultimo film è San Antonio, figura fondamentale e onnipresente della società e della cultura portoghese. "San Antonio è in me", ecco l'affermazione obiettava e lucida di João Pedro Rodrigues che diventa a sua volta mantra che accompagna tutto il film. The Ornithologist è nato dalla volontà del regista di capire come questo Santo protettore tanto caro alla sua terra vive in lui. Fernando (che potremmo considerare come un San Antonio in divenire) incarna letteralmente questa ricerca di spiritualità (totalmente vuota di religiosità), questa sete di trasformazione che lo porta fino alla fonte del suo proprio desiderio. Il regista poggia la sua storia su alcuni fatti biografici legati a San Antonio: il fascino per la natura e gli animali, il naufragio, l'aver salvato un uomo grazie al suo soffio magico, arricchendoli in seguito con la propria immaginazione, con il proprio vissuto. The Ornithologist è un film dove niente è come sembra anche se tutto è apparentemente possibile, come in una leggenda che appartiene al passato pur rimanendo incredibilmente moderna. La foresta incarna questo altrove immaginario dove cattolicesimo, superstizione e tradizione si mescolano misteriosamente, senza pudori. L'idea stessa di religione è rimessa in discussione, come se venisse improvvisamente e inaspettatamente smascherata. Non è forse anche lei parte stessa di un mondo fantastico fabbricato dalla nostra immaginazione? Fernando vive sulla sua pelle un'esperienza umana al limite tra realtà e finzione, tra misticismo e paganesimo, il tutto condito da uno stravolgente manto erotico. Un film blasfemo, rigenerante e necessario.

João Pedro Rodrigues è abituato a calcare le scene dei più importanti festival internazionali. Dopo essere stato selezionato in competizione ufficiale a Cannes nel 2000 con Il fantasma [+], alla Quinzaine des réalisateurs con Odete [+] (2005) e To Die Like A Man [+] nel 2009 (Un Certain Regard) e al Festival di Locarno con The Last Time I Saw Macau [+], ritorna con forza maestosa grazie a The Ornithologist

The Ornithologist è prodotto da Blackmaria, House on Fire e Itaca Films (Brasile), in coproduzione con Le Fresnoy. I diritti mondiali appartengono a Films Boutique.


Talvolta il cinema ama il silenzio e si appaga della forza delle sole immagini. Altre, la parola sovrasta qualsiasi tipo di storia, metafora, illustrazione, e diventa l'agorà delle idee, il luogo di un pensiero. Wim Wenders è stato quasi costretto, ma per puro fascino, a seguire la strada del solo, ininterrotto dialogo - se non per alcuni interventi di musica, come una canzone cantata dallo stesso Nick Cave - quando ha preso tra le sue mani sapienti il dramma di Peter Handke "Les Beaux Jours de Aranjuez" per svilupparne un film, girato con la solita maestria che tanto si attarda sui particolari quanto su prospettive più ampie, questa volta offerte da uno splendido giardino, lontano da Parigi, nell'Île-de-France, ma con la città laggiù, sullo sfondo. Una donna e un uomo attorno a un tavolino parlano, forse evocati da uno scrittore che li guarda, o forse no, portando all'attenzione l'uno dell'altra ricordi e un bagaglio di esperienze, anche intime, costruite attorno a oggetti e situazioni particolari. "Rappresentano soltanto se stessi, una donna e un uomo, interpretati da Sophie Semin e Reda Kateb, non tutte le donne e tutti gli uomini, ma attraverso di loro molti si possono riconoscere», ha precisato il grande regista tedesco. 

«Specialmente la donna attraversa con le sue risposte tutta la sua vita, anche i momenti più penosi. Uno dei privilegi di questo film è far si che un dialogo tra le persone diventi possibile, e che queste riescano a far emergere l'infinità del tempo. E la sala di cinema è il solo posto rimasto sul nostro pianeta - insieme alle chiese - dove puoi prenderti tutto il tempo che vuoi per pensare alla tua vita».

VARIA


B.CODE

Giordano Redaelli, artista brianzolo, dopo essersi affermato con la ricerca artistica dallo stesso denominata "Packaging Art", presenta per la prima volta una serie di lavori che si discostano totalmente dalla sua storica produzione e hanno quale finialita' il desiderio dell'artista di rappresentare la piu' grande invenzione del XX secolo, il computer o, per meglio dire, tradurre l'essenza del funzionamento di ogni macchina computerizzata, interpretandone artisticamente il linguaggio; il codice binario.
Tramite questo si possono scrivere testi, vedere immagini e colori, ascoltare musica, come realizzare calcoli complessi, il tutto utilizzando esclusivamente due simboli, da qui il nome della mostra B.CODE, in specifica alternanza, ovvero: 0 ed 1.

Ad oggi e' forse il linguaggio piu' diffuso al mondo, lo utilizziamo tutti i giorni, con i nostri cellulari, i tablet, eppure la maggior parte di noi non ne ha la benche' minima conoscenza.
Giordano Redaelli compie un esercizio ardito; acquisisce questo linguaggio, lo traduce e lo inserisce sulle proprie tele, dando vita a opere d'arte che ci stimolano ad una profonda riflessione sulla semplicità apparente del vivere, del comunicare e del rapportarsi quotidiano. 



Architettura sacra

E' l'architetto spagnolo Josè Rafael Moneo Vallés il vincitore del Premio di Architettura Sacra organizzato dalla Fondazione Frate Sole col patrocinio del Vaticano e del Ministero dei Beni culturali. 

Il Premio - universalmente conosciuto come l'Oscar mondiale dell'architettura sacra - viene assegnato a Pavia ogni 4 anni, nel giorno della festa di S.Francesco, ai progetti (tutti rigorosamente realizzati e perfettamente funzionanti) selezionati dal comitato scientifico della Fondazione, che ha sede a Pavia ed è presieduta dall'architetto Luigi Leoni. 

Le opere analizzate per l'edizione 2016 sono state 86, provenienti in gran parte da Europa, Usa e Medio Oriente. Il riconoscimento è andato all'architetto Moneo Vallès, seguito, al secondo posto, da due architetti vietnamiti, Thu Huong Thi Vu e Tuan Dung Nguyen. E al terzo posto i progettisti tedeschi Ansgar e Benedikt Schulz. 


Packagin art 

Un'arte giovane, tutta da scoprire che nasce con i materiali di riuso e che, da noi, è arrivata di recente. E' la 'packagin art' che trasforma gli scarti degli imballaggi, delle etichette e delle scatole usate per confezionare prodotti di largo consumo in strumenti d'arte, tramutando, ad esempio, una 'banale' confezione di spaghetti in sfondo per un quadro.

Un modello di espressione artistica che nel nostro Paese ha come maggiore interprete Giordano Redaelli, grafico e ora artista a tutti gli effetti. E' stato lui, ad aver inventato il termine packagin art.  Ed è stato lui a introdurre in Italia questo nuovo modo di raccontare la realtà attraverso i materiali di riciclo.

Lombardo di Molteno, piccolo paese nel lecchese, schivo e lontano dai riflettori, Redaelli ha cominciato a lavorare sulla packagin art una decina di anni fa. All'inizio creava soltanto per se stesso senza pensare di esporre le sue opere. Poi, però, confortato da un gruppo di amici ha deciso di proporle al vasto pubblico. Redaelli ama realizzare interventi pittorici anche piccoli. Usa i materiali che tutti scartano e non considerano come sfondi sui quali rivisita il consumismo in chiave positiva, pur utilizzando ad esempio la confezione delle sigarette Marboro per mettere in evidenza il messaggio allarmante che era riportato sugli effetti dannosi del fumo sulla salute. Ha tratto ispirazione dalla pop art che ha assimilato e ha ricreato con un altro spirito.  Mentre Wahrol lavorava con le serigrafie, lui prende il packaging come elemento singolo moltiplicato più volte. 


DESIGN behind DESIGN

La rassegna, organizzata dal Museo Diocesano di Milano in occasione XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano dal titolo 21st Century. Design After Design, racconta ciò che architetti, designer e artisti hanno pensato e disegnato per la committenza della Chiesa cattolica o comunque rappresentando il sacro, tra opere d'arte, fotografie, oggetti di arredo, esempi di architettura e composizioni musicali. L'iniziativa invita il visitatore ad andare al di là dell'oggetto, artistico o di design, alla ricerca di un significato implicito contenuto in esso, ma che, non per questo, elude la funzione prima a cui l'oggetto è destinato. 

Raccontare la storia di alcuni di questi manufatti significa mostrare un 'uomo creatore', capace di guardare oltre la sua matita e di progettare l'oggetto in base a 'regole' che rimandano al senso, oltreché alle necessarie funzioni tecniche. 


Ogni caso

Poteva accadere.

Doveva accadere.

È accaduto prima. Dopo.

Più vicino. Più lontano.

È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.

Ti sei salvato perché eri l'ultimo.

Perché da solo. Perché la gente.

Perché a sinistra. Perché a destra.

Perché la pioggia. Perché un'ombra.

Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c'era un bosco.

Per fortuna non c'erano alberi.

Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,

un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.

Per fortuna sull'acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.

Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,

a un passo, a un pelo

da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall'animo ancora socchiuso?

La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?

Non c'è fine al mio stupore, al mio tacerlo.

Ascolta come mi batte forte il tuo cuore.

Wislawa Szymborska nasce in Polonia a Kórnik 1923. Nel 1931 si trasferisce con la famiglia a Cracovia dove compie gli studi liceali sotto l'occupazione tedesca; qui negli anni 1945-1948 studia irregolarmente letteratura polacca e sociologia all'Università Jagellonica. Dal 1953 al 1966 è redattrice del settimanale letterario di Cracovia "Zycie Literackie", al quale collabora come esterna sino al 1981. Dal 1993 pubblica le sue recensioni sul supplemento letterario di "Gazeta Wyborcza". Nel 1993 viene insignita in Germania del premio Goethe, nel 1995 in Austria del premio Herder, e nel 1996 del Nobel per la letteratura. Ha pubblicato fino ad oggi dieci raccolte poetiche ed è autrice anche di alcune raccolte di recensioni-feuilleton.


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